sabato 22 febbraio 2020

No al taglio dei Parlamentari. A malincuore, a fatica, ma convintamente NO.


La sfida referendaria
di Felice Besostri

In Italia vige una norma costituzionale senza pari in Europa: «La sovranità appartiene al popolo».
Ma essa così prosegue: «che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». In una
democrazia rappresentativa, socialmente orientata, con forma di governo parlamentare, le forme
principali in cui la sovranità viene esercitata dal popolo sono le elezioni parlamentari e i
referendum, assieme alle elezioni amministrative per quanto riguarda Regioni e Comuni e un tempo
le province, che non sono state abolite: si è abolita la democrazia del voto popolare diretto nelle
province. Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni ( e non Province Autonome) e Stato sono
le articolazioni istituzionali elettive rappresentative, che secondo l’’art. 114 Cost., che costituiscono
la nostra Italia, una Repubblica democratica fondata sul lavoro.
Il popolo in quanto corpo elettorale è un potere dello Stato comunità, perché esercita la sovranità e
perché da esso traggono legittimazione tutti gli altri poteri. Tuttavia, nell’esercizio del proprio
potere il popolo incontra un limite invalicabile, costituito dalla Costituzione e dai suoi principi. Ad
esempio, la Carta fondamentale definisce le leggi elettorali come leggi ordinarie, ma di una
categoria speciale, perché all’art. 72 vengono accomunati «i disegni di legge in materia
costituzionale ed elettorale» prescrivendo che la loro approvazione rispetti particolare procedure
garantite. Una norma alle quale i voti di fiducia sulle leggi elettorali Italikum e Rosatellum hanno
inferto ferite non ancora rimarginate.
Nella nostra carta fondamentale, dunque, è presente una chiara indicazione contro ogni
degenerazione plebiscitaria e populista, nelle quali il richiamo continuo al popolo diventa lo
strumento per negare o limitare i diritti democratici fondamentali del popolo stessi. Invece di voler
dare la voce al popolo, che in democrazia se la prende da solo, bisognerebbe restituirgli il diritto di
voto, che gli è stato rubato nel 2005 con il famigerato Porcellum e mai più restituito, anzi il furto è
stato consolidato con il Rosatellum, che con la legge 51 del 2019 è stato reso applicabile anche al
Parlamento drasticamente ridotto. Concordo con la professoressa Alessandra Algostino, quando
scrive che “La previsione di una riduzione così drastica del numero dei parlamentari incide sulla
rappresentanza, sulla sovranità popolare e sulla democrazia sotto diversi aspetti” e che “Riducendo
il rapporto fra cittadini e parlamentari, si incide sulla rappresentanza, sia da un punto di vista
quantitativo sia da un punto di vista qualitativo”. Infatti, secondo la Costituzione è pacifico che
“L’Italia è una Repubblica democratica”(art.1.1), nella quale “La sovranità appartiene al popolo,
che la esercita“ (art.1.2), come corpo elettorale partecipando all’elezione di un Parlamento, in cui
ogni suo membro “rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di
mandato.”(art.67).
Già, perché nel frattempo la riforma Quagliariello/Calderoli per il taglio dei parlamentari, che
implica la revisione costituzionale degli articoli 56, 57 e 59 della Carta, e porta il numero dei
deputati da 630 a 400 e quello dei senatori da 315 a 200, è stata approvata dal Parlamento. Essa ha
avuto impulso con la prima approvazione in Senato il 7 febbraio 2019 per concludersi con la
seconda approvazione nella stessa Camera l’11 luglio 2019. Cinque mesi per una riforma
ordinamentale, molto più devastante di quanto i tre articoli toccati potrebbero lasciar immaginare.
Senza la coraggiosa iniziativa di 71 senatori, che entro tre mesi dalla approvazione della legge in
Parlamento hanno formulato la richiesta - come previsto dalla Costituzione all’art. 138 - di indire un
referendum confermativo, la riforma sarebbe già entrata in vigore.
L’unica altra possibilità per respingerla, in caso di assenza di referendum confermativo, sarebbe
stata quella di un intervento del Presidente della Repubblica, che può optare per un rinvio motivato
di una legge alle Camere, come previsto dall’art. 74 della Costituzione. Ebbene, un motivo al quale
il Presidente Mattarella avrebbe potuto fare riferimento c’è. Trattasi della nuova formulazione del
terzo comma dell’art. 57 della Carta fondamentale, come previsto dal testo approvato in
Parlamento. Tale formulazione, come vedremo al termine del nostro ragionamento, è palesemente
incostituzionale.
Partiamo innanzitutto dal testo della Costituzione. Ad oggi, l’art. 57 comma 3 recita: «Nessuna
Regione può avere un numero di senatori inferiore a sette; il Molise ne ha due, la Valle d'Aosta
uno». Secondo la modifica costituzionale fortemente voluta dal M5S, esso verrebbe così
riformulato: «Nessuna Regione o Provincia autonoma può avere un numero di senatori inferiore a
tre; il Molise ne ha due, la Valle d'Aosta uno».
Nel progetto di riforma vengono dunque equiparate le Province autonome alle Regioni al fine
dell’attribuzione di un numero minimo di senatori ridotto da 7 a 3. Un escamotage per favorire il
Trentino-Alto Adige, per sottrarlo - pur senza mai senza nominarlo esplicitamente - al destino
generalizzato di una riduzione del 36,50% della rappresentanza. Difatti è l’unica Regione del
gruppo beneficiario del precedente numero minimo di 7 senatori a subire la riduzione di un solo
seggio (potendo contare su due Province autonome al suo interno meritevoli ognuna di un minimo
di 3 senatori), una diminuzione della rappresentanza corrispondente al 14,28%, mentre il numero
minimo di senatori per le altre Regioni (Molise e Val d’Aosta esclusi) è stato ridotto del 42,85%.
Sia chiaro, per sollevare una questione di costituzionalità la legge 83 del 1957 richiede soltanto che
essa non sia «manifestamente infondata». A questo proposito dobbiamo ricordare che l’art. 57 della
Costituzione, nella parte in cui indica che il Senato sia eletto «a base regionale», non è stato
modificato. Inoltre, l’assegnazione dei senatori continuerebbe ad essere effettuata «in proporzione
alla popolazione», delle Regioni e ora anche delle Province autonome. Questi elementi resterebbero
intatti.
Ma, questo è il punto, a differenza dei Comuni, delle Province, delle Città metropolitane, delle
Regioni e dallo Stato, le Province autonome non sono parti costitutive della Repubblica, come si
evince dall’art. 114 della Costituzione, che evita proprio di menzionarle.
Inoltre, la presenza di una minoranza tedesca nella Provincia di Bolzano non giustifica certo un
trattamento preferenziale perché le minoranze linguistiche friulane e sarde - ad esempio - sono
molto più consistenti, e ad esse viene riconosciuta la medesima tutela in norme statutarie o di
attuazione dello Statuto speciale. E ancora: Calabria, Sardegna, Marche, Liguria, Abruzzi e Friuli-
Venezia Giulia sono tutte più densamene popolate di Trentino-Aldo Adige (1.072.276 abitanti ad
inizio 2019, dati Istat), ma avrebbero un minor numero di senatori o tuttalpiù pari, come accadrebbe
per la Calabria (1.947.131 abitanti), che ospita quasi il doppio degli abitanti della Regione
settentrionale favorita dalla riforma. Per questi motivi la violazione degli articoli 3 («Tutti i cittadini
hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge»), 48 («Il voto è personale ed eguale») e
51 («Tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza») della Costituzione pare di solare evidenza. È per questo che il taglio dei Parlamentari non deve entrare in vigore. Il modo più semplice è votare un bel NO.
L’esito non è scontato, se ci sarà condizione di parità per argomentare nei mezzi di comunicazione di
massa. Ogni NO è un mattoncino per la costruzione di una sinistra costituzionale, che nel nome di
Matteotti, Gramsci, Gobetti e dei Fratelli Rosselli sia argine al nazionalismo xenofobo e presidio
intransigente e riformatore della democrazia.

Nessun commento:

Posta un commento